TRE CIME DI LAVAREDO
Tre Cime di Lavaredo, il mito del Cannibale prende forma
Quando ce le si trova di fronte, sembra di ammirare tre dita di roccia che puntano armonicamente verso il cielo. Le Tre Cime di Lavaredo – composte dalla Grande, che tocca i 3000 metri di altitudine, la Cima Ovest e la Cima Piccola – sono senza ombra di dubbio uno dei volti più belli e conosciuti delle Dolomiti. Allo stesso tempo, però, si può dire che sono anche uno dei volti più iconici della centenaria storia del Giro d’Italia, che alla base delle Tre Cime, al Rifugio Auronzo, ci è arrivato ben 7 volte, offrendo sempre grande spettacolo. Innanzitutto perché è sempre stato inserito come arrivo di tappa, il che vuol dire che, o per la vittoria di tappa o per la classifica generale, gli atleti si sono sempre affrontati a viso aperto, non lesinando energie ed attaccando a destra e a manca alla ricerca della gloria. Pioggia o neve non importa, per conquistare un traguardo mitico come quello delle Tre Cime di Lavaredo si è sempre gettato il cuore oltre l’ostacolo.
E poi perché la salita è una di quelle che, per caratteristiche, non può che fare selezione, essendo estremamente dura anche se non molto lunga. Inoltre, questo arrivo è quasi sempre stato il culmine di un tappone dolomitico, quelli di cui tutti ricordano data, anno e protagonisti, in cui prima dell’ascesa finale erano stati scalati Passo Giau, Passo Tre Croci e qualche altra cima mitica. La salita viene approcciata direttamente dalle sponde del Lago di Misurina e per un chilometro e mezzo la strada tira all’insù con una pendenza media superiore al 10% e punte al 18%. Arrivati al Lago di Antorno la strada spiana per un paio di chilometri prima di impennarsi nuovamente a Malga Rin Bianco per gli ultimi, micidiali, 4 km. Gli ultimi 4000 metri, infatti, salgono costantemente al 12%, esaltando chi è riuscito a risparmiare qualche energia in precedenza e annichilendo, invece, chi ormai non ha più benzina nel serbatoio. Quella che arriva al Rifugio Auronzo è una strada che non valica, senza sbocco, non è un passo alpino, si può arrivare in cima e basta.
E pensare che la prima volta che vennero affrontate, nel 1967, la storica penna della Gazzetta dello Sport, Bruno Raschi, le definì le “Montagne del disonore” per quello che accadde in gara. Quella frazione dell’8 giugno, infatti, che da Udine portava il gruppo alle Tre Cime di Lavaredo, finì in farsa: l’inedita salita finale fu presa d’assalto dai tifosi e quando i corridori cominciarono la scalata, con Wladimiro Panizza da solo al comando con 3 minuti su tutti, l’ammiraglia di quest’ultimo si prodigò per tenere lontani i tifosi, mentre dietro successe esattamente il contrario, con i corridori che salivano attaccati alle macchine o alle moto e i tifosi che davano spinte prolungate a tutti. Il risultato è che Panizza fu ripreso e saltato agilmente, Felice Gimondi vinse la tappa, che non esitò a definire “vergognosa”, ma il patron Torriani decise di annullare la tappa ai fini della classifica generale.
Ma non poteva finire così, le Tre Cime di Lavaredo meritavano di essere ricordate in un’altra maniera, così Torriani decise di inserire l’arrivo anche nel 1968, così da mettere definitivamente una pietra sopra lo sconcio dell’anno precedente. E non poteva esserci rivincita migliore, perché nella Gorizia-Tre Cime di Lavaredo di 213 km cominciò a prendere forma il mito di Eddy Merckx, il mito del “Cannibale”, che sulla salita finale, sotto la pioggia, attaccò, recuperò 9 minuti a 16 fuggitivi, andò a vincere rifilando distacchi abissali agli avversari, conquistò la Maglia Rosa, che porterà fino alla fine, e mise in bacheca il suo primo Grande Giro. Gianni Motta e Italo Zilioli arrivarono a 4 minuti, il campione in carica Felice Gimondi, in lacrime, addirittura a 6, in quella che Merckx non esita a definire una delle sue prestazioni migliori di sempre.
Sei anni dopo Merckx aveva già vinto tutto quello che poteva vincere, era già il corridore più forte di sempre e alla Pordenone-Tre Cime di Lavaredo del 6 giugno 1974 ci arrivò in Maglia Rosa, con il mirino sul suo quinto trionfo finale. Stavolta però l’ascesa finale fu una lunga sofferenza: José Manuel Fuente regalò un altro dei suoi show da scalatore puro, involandosi da solo per la vittoria di tappa, ma gli avversari di Merckx erano Gimondi e un giovane neoprofessionista di talento, Gianbattista Baronchelli, che decise di attaccare il “Cannibale” e provare a ribaltare il Giro. Merckx perse le ruote del giovane rivale negli ultimi 3 chilometri, Baronchelli – che nel 1981, nel Giro di Giovanni Battaglin, sulle Tre Cime di Lavaredo crollerà per una tracheite – fu anche Maglia Rosa virtuale, ma il belga riuscì con una reazione d’orgoglio a reagire nelle ultime centinaia di metri, salvando il simbolo del primato per appena 12”, quanto basta per vincere il suo quinto Giro.
Come dimenticare, poi, di quando un ragazzo siciliano in Maglia Rosa, nato a pochi chilometri dallo Stretto di Messina, sbucava in mezzo a una bufera di neve, a braccia alzate e senza guanti per celebrare il suo primo trionfo al Giro d’Italia? Era il 2013 e Vincenzo Nibali, a 24 ore dal gran finale di Brescia, sigillava il suo dominio con una delle imprese più belle del ciclismo recente. Furono vani i tentativi di resistergli da parte del terzetto colombiano, Fabio Duarte, Rigoberto Uran e Carlos Bentancur, che dovettero lottare per il secondo posto. Tra gli avversari dello Squalo c’era anche Cadel Evans, al quale si congelò il freno posteriore negli ultimi chilometri. D’altronde, sulle Dolomiti, a 2300 metri di altitudine, non sai mai a cosa vai incontro.
Ascolta l’episodio di In Cima dedicato alle Tre Cime di Lavaredo:
INFO tecniche
Km | 7,2 | ||
Dislivello | 547 m | ||
Pendenza Max | 18% |