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Il Gavia: epico, eroico, struggente e terribile

28/03/2022

Le 10 salite più iconiche della Corsa Rosa: il Gavia

Dopo lo Zoncolan e lo Stelvio è ora il turno di affrontare il Gavia.

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Bianco, Rosa e Ciclamino

La prima volta del Gavia al Giro fu nel 1960, con il vicentino Imerio Massignan che riuscì scollinare per primo lassù, ai 2.621 metri tra la Valtellina e la Val Camonica. In discesa però forò non una, non due, ma tre volte, terminando la tappa sul cerchione e in lacrime, dopo essere stato battuto per una manciata di secondi sul traguardo di Bormio da Charly Gaul.

Ma fu al secondo passaggio – 28 anni dopo, nell’88 – che il Passo entrò nella storia del Giro, in una delle giornate più epiche di tutto il ciclismo moderno.

Il 5 giugno si correva la quattordicesima tappa da Chiesa Valmalenco a Bormio, di soli 120 chilometri ma con Aprica e, appunto, il temutissimo Gavia. Aria di neve fin dalla partenza, ma l’attesa dei tifosi era troppa, dunque si partì. In Maglia Rosa c’era Franco Chioccioli, ma dietro di lui c’erano sette corridori in meno di tre minuti. Dunque, tutto ancora apertissimo. Il primo ad attaccare però non fu un uomo di classifica ma Johan Van der Velde, che puntava alla tappa per consolidare la sua Maglia Ciclamino. L’olandese partì all’inizio della salita e fu anche il primo di tutti a vedere la pioggia tramutarsi in nevischio, poi il nevischio in neve e infine la neve diventare bufera. Fece tutto il Gavia così com’era a fondovalle: pantaloncini corti e maglietta, niente guanti nè mantellina, gambali o cappello, niente. Il secondo a partire fu il quinto della generale, l’americano Andrew Hampsten, che sapeva di poter contare su un vantaggio che si sarebbe rivelato decisivo. Correva con la 7-Eleven, l’unica squadra che, a differenza di tutte le altre, quel giorno era arrivata preparata. Avevano avuto il semplice accorgimento di comprare vestiti caldi e distribuirli lungo la salita a tutti i loro corridori.

Ci sono due foto che rendono (per quanto possibile) l’idea di cosa fu quella tappa. In una c’è  Van der Velde che sale con indosso soltanto pantaloncini e maglietta, le mani nude aggrappate al manubrio e la testa e le spalle coperte di neve. L’altra ritrae Hampsten, anche lui tutto imbiancato ma con gli occhialoni da sci, berretto, maglione e guanti di lana.

E questo, a oltre 2.600 metri d’altezza, in mezzo alla tormenta, significò tutta la differenza del mondo.

Ciò che non fece la salita lo fece la discesa. Van der Velde transitò per primo con circa un minuto di vantaggio dall’americano, si lanciò come in trance giù per i tornanti senza fermarsi neanche un attimo per scaldarsi o cercare da vestire. Ma fece poca strada, poi dovette arrendersi. Si rifugiò in un camper dove venne accudito con coperte e thè caldo, e da dove sarebbe ripartito solo molto tempo dopo, arrivando a Bormio con 47 minuti di ritardo. Hampsten invece in cima al Gavia si mise addosso qualcos’altro di asciutto e ripartì, seguito a poca distanza da Erik Breukink. La strada per Bormio era ancora lunga, viscida e piena di insidie, le loro ammiraglie perse chissà dove in quel mondo di ghiaccio. I due soffrirono parecchio (disse in seguito Hampsten: “Potremmo passare un paio d’ore con io che cerco di capire come descrivere quel freddo”) ma alla fine arrivarono al traguardo, con Breukink che anticipò di un soffio il compagno di avventura conquistando la tappa.

L’americano, dal canto suo, festeggiò indossando la Maglia Rosa che avrebbe poi mantenuto fino all’ultima tappa, primo atleta non europeo a riuscirci.

Tutti gli altri dispersi, o qualcosa del genere. Jean-François Bernard arrivò a 9’21”. Giuseppe Saronni e Roberto Visentini dopo mezz’ora, Tony Rominger a 35 minuti, Chioccioli riuscì a difendersi concludendo a 5’04”, ma quel giorno lasciò ogni speranza di vittoria finale, e non solo per quella stagione. Come raccontò lui stesso: “Nelle tappe successive non avevo più le energie necessarie, anche mentali. Quella giornata mi distrusse, mi sono ripreso veramente tre anni dopo, quando dominai il Giro d’Italia”.

Quel 5 giugno 1988 passò alla storia del ciclismo come un giorno che il Passo Gavia rese epico, eroico, struggente e terribile.

Certo, indimenticabile.

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